“Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”: il capolavoro dei Beatles, quarantaquattro anni dopo
“Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”: il capolavoro dei Beatles, quarantaquattro anni dopo
Ci vollero centoventinove giorni, circa settecento ore di registrazione (nello studio 2 della Emi) e venticinquemila sterline per realizzare il capolavoro. I Beatles lo fecero uscire il primo giugno del 1967: esattamente quarantaquattro anni fa. L’impatto nel mondo della cultura pop fu inimmaginabile. Paul McCartney voleva eguagliare “Pet Sounds” dei Beach Boys (che era stato composto per rivaleggiare con il loro precedente “Rubber Soul”): fu Brian Wilson invece a non riprendersi mai più del tutto dall’ascolto.
Le registrazioni erano iniziate il 24 novembre del 1966. La band era entrata in studio dopo un’estate intensa, in cui il viaggio americano e la celebre frase di Lennon (“I Beatles sono più famosi di Gesù”) avevano messo alla prova tutto l’entusiasmo accumulato con i risultati di “Revolver”. Una buona notizia riportò il buonumore: nessun limite agli orari di registrazione né al budget. Lo Studio 2 a completa disposizione. Situazione perfetta per chi, come loro, era abituato a correre in sala d’incisione in qualsiasi momento per fermare su nastro le idee e – come accadeva spesso nel caso di McCartney – aggiungere il proprio ‘tocco’ a quelle altrui.
Volevano un concept. Un album che raccontasse Liverpool con gli occhi di un adolescente ormai adulto. C’erano già tre brani (più una serie di provini di Lennon che vennero inseriti in seguito). Perle del calibro di “When I’m Sixty-four”, “Strawberry Fields Forever” e “Penny Lane”. La EMI però fece la voce grossa: serviva un 45 giri e quindi “Strawberry Fields” e “Penny Lane” vennero ‘sacrificate’ come singolo. Da lì iniziò l’avventura del Sergente Pepe: un mood lisergico (Lennon e Harrison sperimentavano già abbondantemente l’LSD) misto a quello di una nostalgica passeggiata per i luoghi dove erano cresciuti.
Il titolo nacque ispirandosi alle band statunitensi dell’epoca. Nomi fantasiosi, lunghissimi, ironici, che arrivavano da ‘mondi’ sconosciuti e immaginari. McCartney voleva che i Beatles si trasformassero almeno per un po’ in una di quelle bande di ottoni d’epoca vittoriana che tanto avevano influito sulla sua formazione. Fece ascoltare la title-track agli altri, superò le perplessità di Harrison e Lennon e accolse il contributo di Ringo Starr con “With a little help from my friends” che diventò subito la prima canzone in scaletta.
Difficile affrontare in così poco spazio la disamina di ogni brano. Ne sceglieremo uno per tutti, perché spiega bene cosa furono i Beatles di “Sgt. Pepper”, quali vette riuscirono a raggiungere. La canzone che chiude l’album è “A day in the life”: per molti (e per chi scrive) il punto massimo della loro produzione. Trentaquattro ore di registrazione, due linee melodiche (la coppia lavorava spesso così) distinte eppure complementari, una produzione eccelsa (George Martin diede fondo a tutta la sua sapienza), quel finale con il lungo accordo di pianoforte (erano in realtà quattro, suonati insieme dalla band e da Martin), il glissando orchestrale dopo le strofe (“Voglio un suono da fine del mondo […] Un po’ alla 2001: Odissea nello spazio“, chiese Lennon) con novanta elementi e le partiture scritte una ad una (era il 10 febbraio e ci fu una festa in studio per celebrare la fine delle sovraincisioni), la sveglia che suona e il conteggio – non fu possibile cancellarlo o fu una scelta? – delle 24 battute lasciate ‘vuote’. Tutto si risolse in una incredibile concatenazione di eventi che portarono “A day in the life” ad essere il brano più complesso, affascinante (dalla notizia della morte di un uomo in un incidente d’auto citata nel testo, nacque la famosa leggenda della ‘scomparsa’ di Paul McCartney) e maestoso forse della Storia della musica pop tutta.
Quella copertina. Quanto è stato scritto su quel collage di volti e riferimenti? Jann Haworth e Peter Blake la assemblarono su suggerimento di McCartney e la resero il mito grafico che conosciamo. Una sorta di gigantesca ‘cameretta’ tappezzata con le immagini dei personaggi che avevano contraddistinto la formazione dei Fab Four. Albert Einstein, Marlon Brando, Karl Marx, Edgar Allan Poe, Sonny Liston, Lenny Bruce e persino il controverso (indovinate chi era un suo fan? Esatto, Lennon) Aleister Crowley. L’idea iniziale prevedeva di includere nella copertina (che per la prima volta si apriva a libro) vari gadget. Baffi finti e toppe di stoffa. I costi si rivelarono troppo alti e si decise di stampare gli oggetti su una pagina, per poi essere ritagliati. Nessuna censura sui nomi, nonostante la EMI tremasse non poco all’idea di lasciare carta bianca. Alla fine vennero eliminati dalla lista solo Gandhi, Gesù Cristo e Adolf Hitler (oltre a quelli che avevano chiesto alti compensi per lo ‘sfruttamento’ dell’immagine).
Cosa accadde poi? “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” arrivò – letteralmente – ovunque. Appena finito il missaggio, i Beatles ne ‘spararono’ una copia in acetato dalle casse di un impianto in casa di Mama Cass Elliott in King’s Road. Spalancarono le finestre alle sei del mattino e la gente iniziò ad affacciarsi. Nessuno protestò, molti applaudirono. Erano i Beatles ed erano parte della cultura britannica e della cultura di tutti: con un disco che fu “un momento determinante nella storia della civiltà occidentale” (Kenneth Tynan) come oggi, come sempre.