Anteprima: la biografia di Ron Wood, Ronnie – Giorni e notti dei Rolling Stones
Non solo Keith Richards: la biografia con le memorie della chitarra dai riff assassini dei Rolling Stones nel Regno Unito è stata un evento. Ora arriva anche quella della sua spalla a sei corde, Ronnie Wood. La traduzione italiana esce oggi per Rizzoli. Ottimo il lavoro di adattamento di Ira Rubini, per raccontarci la vita
Non solo Keith Richards: la biografia con le memorie della chitarra dai riff assassini dei Rolling Stones nel Regno Unito è stata un evento. Ora arriva anche quella della sua spalla a sei corde, Ronnie Wood. La traduzione italiana esce oggi per Rizzoli.
Ottimo il lavoro di adattamento di Ira Rubini, per raccontarci la vita di un personaggio parzialmente offuscato dal gigante Richards, ma che resta pur sempre uno degli Stones. Ma non dalla nascita del gruppo: entrò ufficialmente solo nel 1976.
Dopo il salto qualche brano in anteprima della biografia Ronnie – Giorni e notti dei Rolling Stones.
Se i glimmer twins, Mick Jagger e Keith Richards sono le colonne portanti degli Stones, Ron Wood e Charlie Watts sono il cemento che permette al palazzo di stare in piedi. Ronald David Wood, detto “Ronnie”, è nato il 1° giugno 1947 a Hillingdon, alla periferia di Londra, vicino Heathrow.
Wood è uno “zingaro d’acqua”, un water gipsy: sarà il primo della sua famiglia a vivere sulla terraferma, genitori e nonni lavorano e vivono sulle chiatte. A inizio anni cinquanta però, abbandonano l’acqua dolce per una casa popolare.
Se l’incontro di Jagger e Richards è leggendario – dopo gli anni dell’infanzia e delle elementari si perdono di vista e si rivedono per caso adolescenti in treno una mattina – la biografia di Wood non è da meno, ed è popolata di personaggi pittoreschi, da romanzo, come i membri della sua famiglia.
Quasi felliniano l’incontro dei genitori di Wood:
Mia mamma era la più grande delle sue sette figlie, e crebbe a bordo della Orient, ormeggiata davanti all’ospedale di St Mary. Portava abiti smessi, come tutti noi. Aveva i piedi deformati per via delle scarpe di cattiva qualità, e perché aveva camminato per chilometri, andando e tornando da scuola con nonna Leah, spingendo i più piccoli in un carretto. Mia mamma era minuta, come sua madre, alta appena un metro e cinquanta. Ricordo che una volta qualcuno le disse: «Si alzi, signora Wood» e lei rispose: «Sono già in piedi». A un certo punto, entrambi i miei nonni erano finiti a lavorare sulla stessa barca, insieme a mio padre. Fu così che i miei si conobbero. Una sera, nonna Leah accompagnò la mamma al pub Nag’s Head, a qualche minuto da casa nostra. Liz entrò mentre Archie stava ballando e suonando l’armonica. Papà mi raccontò che, appena vide la mamma, pensò È mia. Aveva appena vinto la riffa del pub, che in quei giorni consisteva in cibo e birra, e decise subito di cederle la vincita. «Hai vinto uno zampone di maiale» fu la sua frase d’approccio.
Wood, prima di entrare nei Rolling Stones, si afferma come chitarrista e bassista. E in gruppi di primissimo piano si fa molti amici, tra cui Jeff Beck, leggendario chitarrista, compagno di risse e di riff. Siamo nell’epoca dei Birds e del Jeff Beck Group, per cui dal 1964 al 1967:
La mia filosofia personale, quando scoppiava una rissa, era di levarmi dai piedi il prima possibile. Con i Birds, Colin ci aiutava a scappare, prima che succedesse qualcosa di grave. Oppure, se necessario, menava le mani per noi. Mi tenevo fuori dalle liti fra mod e rocker, rimanendo un «mocker». Entrambe le fazioni sapevano che le band si fermavano al Blue Boar (…) Una sera, ero al Blue Boar con Jeff Beck, stavamo mangiando, quando notammo certi rocker radunati vicino ai distributori di benzina, con bastoni, mazze da baseball e cerchioni d’auto, che guardavano dritto verso di noi. Capii che c’erano guai in vista e volevo sgattaiolare via, ma Jeff cominciò a provocarli, gridando da dietro la vetrina: «Vaffanculo, coglioni» con ogni sorta di gestacci. Chiesi a Jeff se aveva altre brillanti idee, del tipo: «Come cazzo usciamo di qui, adesso?». L’unica soluzione che gli venne in mente fu correre. Così, mollammo il cibo e schizzammo fuori dal caffé, puntando dritto verso l’auto. Il nostro autista, quella sera, era una donna, per niente svelta nelle manovre. I rocker ci vennero dietro. Jeff si mise al volante e diede gas, la donna scivolò al posto del passeggero e io, quando vidi che il finestrino posteriore era aperto, ci saltai dentro a capofitto. Ma quelli raggiunsero la macchina e cominciarono a menare pugni sul cofano, così Jeff mise la retro e inchiodò uno di loro contro il distributore, poi ingranò la prima e ne schiacciò un altro contro il muro. Ormai, i rocker erano furiosi e continuarono ad arrampicarsi sull’auto e a batterci sopra, mentre noi fuggivamo. La stessa situazione si ripresentò su un treno, in Italia. E anche allora ce la demmo a gambe.
L’immagine di Jeff Beck in versione “Christine: la macchina infernale” è fantastica. Ma c’è molto altro nella biografia di Ron Wood. L’amicizia con Rod Stewart e la carriera con gli Small Faces, che lo traghettano fino all’ingresso negli Stones. Sulla metà degli anni settanta, Stewart non ne poteva più di dare perennemente in prestito un membro della band agli Stones e le cose “precipitarono”. In positivo per Wood, decisamente meno per Keith Richards che in quel periodo – siamo tra il 1976 e il 1977 – affronta i problemi più gravi di tossicodipendenza della sua vita.
A Toronto viene beccato con alcuni grammi di eroina, e sembra che gli Stones debbano chiudere baracca… fortunatamente le cose si risolvono diversamente, ma i ricordi di Wood di quei giorni sono indelebili:
All’inizio del 1977, gli Stones firmarono un contratto per fare quattro dischi in cambio di circa quattordici milioni di dollari. Nessun altro nel music business faceva tanti soldi, o ne aveva mai visti tanti, ma una parte del contratto prevedeva una registrazione dal vivo. Il problema delle registrazioni live è che sono un terno al lotto. Se i pezzi vengono bene, è fantastico, ma altrimenti finiscono comunque nell’album. Si può sempre cercare di ammorbidire il mix il più possibile quando si portano i nastri in studio, ma fino a un certo punto. Arrivammo in Canada da luoghi diversi il 20 febbraio, a parte Keith e Anita, che ci raggiunsero solo quattro giorni dopo. E furono bloccati alla dogana e i loro bagagli perquisiti. Per Keith era l’inizio di un incubo che durò alcuni mesi, e per noi altri il principio di un periodo di grande agitazione a Toronto. La band e la crew occuparono alcuni piani dell’Harbour Castle Hotel, sulle rive del lago Ontario, che prese a pullulare di polizia e di giornalisti dal momento in cui arrivammo. Capimmo che c’era sotto qualcosa e infatti, il 27 febbraio, la polizia reale a cavallo fece irruzione. Decine di agenti in borghese salirono con gli ascensori e per le scale e fecero irruzione nella parte dell’albergo dove stavamo noi. Keith fu arrestato, ficcato in galera, processato e maltrattato. Mentre passava tutti quei guai, noi cercavamo di vedere il lato buono della vicenda. Avrebbero potuto metterlo dentro per molto tempo, ma la combinazione di qualche bravo avvocato e dell’«angelo cieco» di Keith, una ragazzina di nome Rita Bedard, che sciolse il cuore del giudice con la sua passione per gli Stones, fece sì che non restasse in cella e che gli Stones non dovessero sciogliersi.
Una carriera nel gruppo più famoso del pianeta, ma paradossalmente vissuta non dico lontano dai riflettori, ma un po’ meno al centro dell’attenzione di Jagger e Richards. Fino ad arrivare ai giorni nostri, o meglio al 2005
2005: spiando fuori dal balcone della mia stanza d’albergo, osservando i milioni di persone in attesa dell’inizio del nostro storico concerto a Rio, mi resi conto di quanta strada avessimo fatto. L’adrenalina montò alle stelle, fino a quando salimmo sul palco di Copacabana Beach. Percorrendo la passerella costruita per collegare l’albergo al palco, provai una sensazione esilarante, che nessuna droga avrebbe mai potuto lontanamente eguagliare. Ci augurammo buona fortuna l’un l’altro, prima che irrompessimo sul palco e che, come direbbe Keith, «venisse aperta la gabbia». Eccomi – più di trent’anni dopo quel primo sguardo sugli Stones, che scuotevano il festival blues e mi chiedevano di raccontare la storia della mia vita. Per quanto impegnativo, lo avrei fatto disegnando ogni casa in cui ho vissuto e ogni persona che ho incontrato in sessant’anni. Vorrei condurvi in quei luoghi, presentarvi quella gente.
Scritto con inchiostro zingaro
Per la riproduzione si ringrazia Rcs Libri