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Primavera Sound 2013: il diario

Primavera Sound 2013, ecco il diario da Parc del Fòrum di Barcellona

pubblicato 28 Maggio 2013 aggiornato 30 Agosto 2020 08:05


Grazie al nostro corrispondente Riccardo Zagaglia per il report.

Freddo freddo e ancora freddo. Queste sono le prime parole “a caldo” (…) che mi vengono ripensando al Primavera Sound 2013 appena terminato. Le previsioni del tempo mi avevano messo in guardia (anzi parlavano di pioggia che poi, fortunatamente, non è arrivata) e mi ero anche premunito dell’occorrente ma quando sei costretto a stare fuori per ore durante la notte con l’incessante vento del mare che penetra tra i vestiti ti rendi conto che anche quattro strati di magliette, maglioni e k-way non bastano.

Il freddo è stato il nemico numero uno fin dalla serata di apertura quando, dopo qualche brano dei Guards (disco piacevole, live niente di che), si è deciso che l’opzione migliore era quella di tornare in appartamento.

Giovedì 23 Maggio 2013

Il primo vero giorno di festival accoglie con il sole e la tipica atmosfera “da pomeriggio del Primavera Sound” con il pubblico (ancora bello fresco e riposato) che piano piano inizia a popolare la vastissima area del Parc Del Forum. Decido di aprire la maratona di tre giorni con un personaggio a me ormai caro: Jack Tatum e il suo progetto/band Wild Nothing. Sempre più band a tutto tondo, riescono a carburare all’istante grazie ai ritmi spensierati e sognanti fatti di intrecci chitarristici di stampo jangle e soluzioni melodiche azzeccate. Tutto molto bello ma come da tradizione fin da subito iniziano a giocare un ruolo fondamentale le priorità, sia quelle pianificate (sull’immancabile PDF-timetable) che quelle estemporanee. Pianificata era sicuramente la priorità chiamata Savages, autrici di un disco d’esordio sicuramente derivativo ma incredibilmente riuscito (uno dei debutti dell’anno per chi scrive). I filmati su Youtube non mentivano, live le quattro paladine post-punk del nuovo millennio sono una vera macchina da guerra: sezione ritmica pulsante, chitarra tagliente (peccato per un problema tecnico durante l’esibizione) e la personalità magnetica della leader Jehnny Beth e le sue ormai famose movenze alla Ian Curtis. Uno degli apici dell’edizione. Quando il sole cala è il momento dei Tame Impala al palco Heineken (Llevant nel 2011 e Mini nel 2012). Grandi manipolatori di suoni, il gioco è quasi tutto nell’effettistica in grado di ricreare dissonanze psichedeliche da “frattali cosmici e neverending-spirals”. Ottima resa e alchimia (nonostante la recentissima new-entry al basso). Decido poi di saltare Chris Cohen (sarà al Beaches Brew festival all’Hana-Bi dopo pochi giorni) per rivedere i Dinosaur Jr, i quali hanno bisogno di carburare con un paio di canzoni prima di scaldare l’atmosfera e rispolverare alcuni classici in grado di coinvolgere maggiormente un pubblico a mio avviso un po’ troppo spento in proporzione alla solita distorta quantità di energia sprigionata dal trio guidato dal grande J.Mascis. Il problema era probabilmente legato al volume: troppo basso. A questo punto inizia il deliro di onnipresenza. Il via me l’hanno dato degli spentini Postal Service: nonostante l’anniversario del loro primo (e ultimo) album con reunion annessa, nulla dei cinque-dieci minuti assistiti in zona Heineken mi ha convinto a restare lì mentre affianco (al palco ATP) suonava un idolo di sempre come Bob Mould, che tra pezzi solisti e storia pura targata Hüsker Dü mi ha riportato laddove mi avevano lasciato i Dinosaur Jr., ovvero nel bellissimo mondo alternative USA della seconda metà degli anni ’80. Il tempo di dirigermi in direzione Pitchfork stage (dove cantava il corpulento quanto ammirabile Killer Mike) passando dal Ray-Ban stage per un paio di pezzi dei Deerhunter, anche loro lasciati un po’ in disparte in quanto suoneranno a breve dalle mie parti, ed è stato il turno dei Grizzly Bear. Primavera stage piuttosto pieno ma, nonostante una buona performance e un impatto visivo d’effetto, è sopraggiunta un po’ troppo presto la noia. A maggior ragione perchè in contemporanea stavano calcando il palco del Pitchfork i Fucked Up. Hardcore punk ma anche tanto intrattenimento: Damian Abraham si conferma un personaggio da incorniciare, tra il classico petto nudo e pancione di fuori, il cavo del microfono arrotolato attorno alla faccia, pose e grande interazione con il pubblico. Ancora violenza sonora e personaggioni con i Death Grips. Potenza allo stato brado, primordiale. Mi sono avvicinato alla prima fila, a fianco delle casse e sentivo gli organi interni tremare per i bassi. Senza il batterista Zach Hill e con il solo aiuto dei beat di Flatlander, MC Ride ha tenuto il palco come un cagnaccio imprecante, live assolutamente imperdibile. Ottimi i Phoenix: dopo le bastonate di Fucked Up e Death Grips il loro pop frizzante e assolutamente trascinante (soprattutto live, dove l’esperienza si fa sentire) era quello che ci voleva. L’ultimo album non è un gran che, poco male… infilano una dietro l’altra le hit che piano piano stanno collezionando in oltre dieci anni di carriera e il (vasto) pubblico apprezza. Purtroppo mi sono perso il clamoroso feat con J. Mascis a causa di una nuova corsa in direzione nord, prima con i Fuck Buttons all’ATP, Four Tet al Pitchfork e i Dead Skeletons al Vice. Tutti e tre visti abbastanza di sfuggita ma quest’ultimi mi hanno decisamente impressionato con i loro oscuri mantra. Tutto è pronto per uno dei live più attesi, quello degli Animal Collective. L’inizio ricorda un po’ quello di due anni fa, quando per parecchi minuti si erano lasciati andare a sperimentazioni abbastanza pedanti, per poi spostarsi su binari più congeniali al grande pubblico senza però mai rinunciare ad una dose di follia e al credo “facciamo quello che ci pare”. La prima giornata si conclude qui, rinunciando ad un John Talabot già visto recentemente.

Venerdì 24 Maggio 2013

Quale modo migliore di iniziare la giornate (sono le 18:00 ma tutto nella norma per chi conosce i ritmi del Primavera) se non con Kurt Vile e i suoi Violators? Il suo Walkin on a Pretty Daze è per chi scrive uno dei tre migliori dischi dell’anno al momento e l’impatto live, con il sole e quella sensazione di lento risveglio, ne esce convincente sotto tutti i punti di vista. Grandi momenti chill alternati a momenti più muscolari… la tradizione del grande rock cantautorale americano è nelle sue mani. Mi sposto a fianco per vedere gli interessanti Merchandise e rimango leggermente deluso: su disco danno l’impressione di valere molto più di quanto non si dica, ma live sembrano una band qualsiasi di lontano revivalismo ’80s. Impressione opposta invece per i Peace: disco caruccio ma non fondamentale contrapposto ad un live da band rodata, nonostante la loro giovane età, con i giusti tempi e i giusti contrasti. Ottimi intrattenitori anche i Django Django: look a metà tra Devo e le trovate dei The Presidents of the United States of America, suonano di tutto all’insegna del divertimento. Primo set al buio quello di Solange. La sorellina di Beyonce sulla scena ormai da anni, ma sempre più hypeizzata dalla blogosfera, dimostra di essere una cantante di livello e la sua è una buona performance… ma parte del clamore non ha trovato spiegazioni in un live piuttosto “standard”. Decisamente “standard” anche l’esibizione di Jesus & The Mary Chain… sarà per l’impatto visivo “imbolsito”, lontano dalle chiome nere dei bei tempi andati, o per una mancata propensione alle distorsioni noise che li hanno resi celebri, ma anche i super classici (stiamo parlando di un gruppo fondamentale) non emanavano la giusta verve. Di corsa dall’altra parte del festival per vedere i Daughter. Promettenti e autori di uno degli album d’esordio dell’anno, qui i londinesi sembravano un po’ fuori contesto. Ritardo post-soundcheck, una Elena Tonra visibilmente (troppo) emozionata e pause troppo lunghe… peccato. Li rivedremo in Italia a breve. Tutta un’altra storia Doldrums: accompagnato dal suo fedele compare di beat, il minuto e giovane canadese è in grado di sprigionare il giusto mix di energia e sperimentazione, portandola fino alle prime file con una sfacciata abilità e con un timbro vocale fuori dai canoni. Tutto molto bello, solo il richiamo di James Blake poteva interrompere la permanenza in transenna al Pitchfork stage. Una volta arrivato al Primavera stage mi sono reso conto di quanto fosse impossibile godersi un concerto come quello di Blake da lontano. Un mare di gente, ad occhio superato solo dai Blur un’ora più tardi… incredibile considerato che nell’edizione del 2011 ero riuscito a vederlo in prima fila senza difficoltà. Giusto un paio di canzoni per Blake e poi camminata (sempre più dolorosa) verso l’Heineken stage e i Blur. Un tuffo pop-olare che deve necessariamente essere inizializzato da un veloce passaggio all’ATP in compagnia dei Neurosis. C’è stato un momento in cui stavo per decidere di non andare a vedere la band di Damon Albarn ma poi fortunatamente ho cambiato idea. Anticipati a sorpresa da un live “laterale” dei The Wedding Present, i Blur hanno portato sul palco tutta la loro esperienza, ma non solo. Una carica incredibile, Damon ancora animale da palco e setlist completamente dedicata ai grandi successi del gruppo inglese. Tutti conoscevano tutte le canzoni… il grande momento di massa del festival: ci voleva. Troppo grande però era la voglia di vedersi i The Knife dalle primissime file, quindi prima della fine del set brit (e la conseguente mega fiumana/imbuto umano) ho optato per un passaggio veloce dai Goat (pazzi assoluti, da rivedere appena possibile) e Swans in un RayBan stage un po’ vuotino. Capitolo The Knife: a metà strada tra buffonata cosmica e live del secolo, gli svedesi (come già era trapelato dalla data milanese) hanno realizzato un concept-show volutamente trash ma con un significato molto più profondo che si riallaccia ai risvolti politici dell’ultimo masterpiece Shaking The Habitual. A parte l’introduzione suonata con strumenti pensati ad hoc è stato un susseguirsi di colorati balletti apparentemente insignificanti. Difficile da riassumere se non con la parola arte. Giornata chiusa in bellezza poi con i Disclosure: nome giustamente sulla bocca di tutti da un po’ di tempo, fino a questo punto non hanno sbagliato nulla. La loro garage UK per le nuove generazioni ha regalato grandi momenti di ballo collettivi fino all’alba.

Sabato 25 Maggio 2013

Dopo un venerdì assolutamente infernale e al limite dell’autodistruzione, è giusto prendere la giornata conclusiva con un ritmo più rilassato. Prima con una conferenza stampa in press area (170.000 persone la cifra fatta registrare in questa edizione del festival, ad occhio direi il record) e poi con il fresco e leggero set degli indie-poppers Cayucas al Vice stage (purtroppo Rodriguez, che doveva suonare più o meno a quell’ora al Primavera stage, ha dato forfait la settimana prima). Bella e brava è sicuramente Melody Prochet con il suo progetto Melody’s Echo Chamber, buon apripista ad uno dei concerti che attendevo maggiormente (qualche giorno prima l’avevo perso per vedere gli ottimi Suuns), quello di Mac Demarco. Quello che si dice su di lui è tutto vero. Personaggio incredibile (e support band altrettanto allucinata), divertito e divertente… quasi comico. Imprevedibile a livello extra-musicale quanto poi abile nel momento in cui decide di imbracciare il suo chitarrino sgangherato. Con la stanchezza che avanza, quella di godersi i Dead Can Dance da seduti sulle gradinate del Ray-Ban è stata la scelta giusta nel momento giusto… non fosse stato per l’implacabile vento gelido. Set emozionante ed emozionale, con Lisa e Brendan ad alternarsi e momento topico durante il tramonto: lo scorgersi della luna all’orizzonte al suono delle loro note … brividi, questa volta non per il freddo. Niente Wu-Tang Clan per darsi alla vana ricerca di abiti più pesanti tra i banchetti del merchandise e poi Camera Obscura. Perchè vederli: 1) nome storico dell’indie pop, 2) in scaletta nuovo materiale di imminente pubblicazione. Perchè non vederli: 1) in contemporanea suonava un certo Nick Cave, 2) sono probabilmente il gruppo esteticamente più brutto dai tempi delle Shaggs. Dopo qualche pezzo (bravi eh, però Nick chiamava) di corsa quindi verso un Heineken completamente schiacciato dal carisma di un Cave in grande spolvero. Istrionico narratore, si muove con eleganza in un repertorio fittissimo di classe immensa, compreso l’ultimo Push the Sky Away. Un grande. Per alcuni il festival potrebbe finire qui, ovviamente non per me… e il motivo si chiama My Bloody Valentine. Prima però i Phosphorescent, che non ricordavo nemmeno di avere già visto in apertura ai The National (pensate un po’ quanto mi avevano impressionato…). Recentemente autori di un buon disco, “Mucacho”, ma purtroppo poco coinvolgenti live… e l’attitudine da “guardatemi, sono un wannabe-figo” del leader Matthew Houck non aiuta. Poi arrivano loro, i My Bloody Valentine, nel momento meno adatto per un set “impegnativo” come il loro, in conclusione di un festival estenuante al limite della sofferenza. Visti da poco a Manchester e Londra (e poi poker a Bologna), i MBV ci mettono 2-3 pezzi ad ingranare ma poi si viaggia che è un piacere… fino alla classica “Holocaust Section” capace di far venire giù anche i grattacieli che facevano da sfondo all’Heineken stage.

Si conclude così l’enorme edizione del 2013 con tanti pro (basterebbe anche solo il clamoroso parco band) e qualche contro (temperatura, palco Heineken rivedibile, volumi generalmente un po’ bassi) che si sperano vengano migliorati per l’edizione del 2014 per la quale è stato già annunciato un nome da novanta: i Neutral Milk Hotel.

Primavera Sound 2013

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