The National la recensione di High Violet
È passata quasi una settimana dall’uscita di High Violet, ultima fatica dei The National in ordine di tempo. Una settimana di ascolto intensivo da parte del sottoscritto del disco in oggetto (a cui si deve aggiungere un’ulteriore sessione di ascolto quando il disco è stato in streaming sulle pagine online del New York Times). Un
È passata quasi una settimana dall’uscita di High Violet, ultima fatica dei The National in ordine di tempo. Una settimana di ascolto intensivo da parte del sottoscritto del disco in oggetto (a cui si deve aggiungere un’ulteriore sessione di ascolto quando il disco è stato in streaming sulle pagine online del New York Times). Un periodo che mi sembra sufficiente a poterne scrivere qualcosa, dare la mia opinione in merito magari per incuriosire qualche ascoltatore non abituale ad approcciarsi a quello che, al momento, è uno dei migliori gruppi del pianeta.
High Violet rappresentava all’interno della discografia dei National un momento cruciale. Arrivati all’apice di una popolarità planetaria e di una stima pressoché unanime da parte della critica con il precedente Boxer, i National potevano confermare quanto di buono fatto fin qui mantenendosi fedeli al loro inconfondibile suono: un post-punk melodico incorniciato dalla voce baritonale del cantante Matt Berninger, oppure osare in direzione di soluzioni stilistiche radicalmente nuove.
Con High Violet, secondo me, i National si tengono nel mezzo riuscendo a fare quasi entrambe le cose. Ai primi ascolti infatti, gli elementi acustici che emergono sono quelli più in continuità con il passato della band: pezzi come Terrible love o Bloodbuzz Ohio potrebbero tranquillamente provenire dalla tracklist di Boxer o Alligator. È solo con il procedere dei giri del disco nel lettore che si fanno strada nell’orecchio di chi ascolta gli indici di originalità di High-Violet. Evidenze sottili, non urlate, com’è nello stile della band.
Così quando Anyone’s Ghost, Afraid of everyone e Conversation 16 cominciano a entrarti in testa emerge con loro l’aria di piccole novità introdotte con la classe e la discrezione che li distingue. I National accolgono nel loro suono generi nuovi, implementano la loro matrice pop-wave, sperimentano crescendo di batteria che ricordano il post rock degli Explosion in the sky. Lo stesso Matt Berninger gioca con la propria voce in modi inediti, le associazioni melodiche si fanno più libere e ariose, più pop e accessibili; il che non è per forza un difetto.
Se Boxer è stato il capolavoro dei National, High Violet probabilmente non lo supera ma ci si affianca; non in modo complementare ma rafforzativo; né una smentita del passato, né una svolta copernicana, del resto non avevano bisogno di fare né una cosa né l’altra. Semplicemente i National riaffermano di saper fare musica romantica e poetica meglio di chiunque altro al momento (il che non mi pare poco) e con High Violet probabilmente conquisteranno nuovi adepti senza perderne di vecchi. Siamo a maggio ma si può già dirlo: difficilmente High Violet resterà fuori dalle liste dei migliori dieci dischi a fine anno. Siete d’accordo?
Voto: 7+