Primavera Sound 2011: il diario
1° Giorno – 26 Maggio La location del Primavera Sound è semplicemente perfetta, niente afa assurda (è sul mare), niente fango (è tutto cementato) e aree ristoro ottimamente studiate.Dopo una rapida visita ai sette palchi e una chiacchierata con colleghi italiani, la decisione è stata quella di disertare i primissimi concerti open-air sfidando la sorte
1° Giorno – 26 Maggio
La location del Primavera Sound è semplicemente perfetta, niente afa assurda (è sul mare), niente fango (è tutto cementato) e aree ristoro ottimamente studiate.
Dopo una rapida visita ai sette palchi e una chiacchierata con colleghi italiani, la decisione è stata quella di disertare i primissimi concerti open-air sfidando la sorte e la lunga fila all’Auditori Rockdelux (solo i più fortunati erano stati sorteggiati per un posto assicurato) sperando di riuscire a godersi lo show di Sufjan Stevens.
L’attesa è stata ripagata da una performance veramente ottima: nonostante abbia proposto in maggioranza il suo ultimo disco (molto interessante, ma che non ho amato alla follia), è stata un’esibizione impeccabile con un impatto visivo in grado di fare da cornice a quello che a Sufjan piace definire (i suoi lunghi monologhi ne sono stati la prova) “cosmic pop”. Un piccolo spazio è stato riservato alla cover di The One I Love (R.E.M.) da brividi.
Uscito dall’Auditori, con il sole in lenta discesa, a poco è servita la “corsa” per vedere i P.I.L. o Glasser.
Purtroppo i festival come il Primavera richiedono scelte dolorose… così, dopo il live dei The Walkmen al Pitchfork (sembravano un po’ fuori luogo), ho lasciato da parte Caribou e Suicide privilegiando il live degli Interpol al Llevant (il palco più lontano dalla “base” ): una scelta apparentemente poco condivisibile, ma spiegata dal fatto che per un motivo o per l’altro non ero ancora mai riuscito a vederli dal vivo.
Live molto impostato (l’assenza di Carlos D. si sente, anche a livello di carisma) con qualche brano di troppo tratto dagli ultimi lavori e qualche peccaminosa mancanza (“PDA”, “NYC” e “Untitled”)… Nel complesso il tipico concerto “ignorante” (di quelli con cori e canzoni canticchiate da tutti i presenti) che tutto sommato, in quel momento, ci stava da Dio.
Gold Panda e soprattutto Salem erano forti tentazioni, ma era impossibile rinunciare ai paralleli Flaming Lips (anche loro mai visti live).
Spettacolo puro: giganti palloni colorati, ragazze del pubblico tramutate in fiabesche Dorothy-ballerine, felici di condividere il palco con Wayne e con buffi uomini-orso, in un’ atmosfera lisergico-infantile da sorriso sulle labbra perenne. A completare il tutto, un mare di gente impaziente di intonare i classici della band (“She Don’t Use Jelly” e “The Yeah Yeah Yeah Song” piazzate nella prima parte) in quello che si rivelerà essere uno dei migliori live del festival.
2° Giorno – 27 Maggio
Con ancora il sole bello alto, gli Avi Buffalo hanno cercato di inaugurare nel migliore dei modi la seconda giornata.
Dei quattro sul palco, le due figure di spicco sono sicuramente la batterista Sheridan e soprattutto Avigdor che quando si lascia andare, mette da parte il nerdy-style che lo accompagna, e riesce a dare vita a jam epilettiche decisamente fuori di testa. La scelta di correre subito dopo di fronte al palco dei Male Bonding (al Pitchfork Stage) è stata dettata soprattutto dalla volontà di godersi James Blake (che suonava subito dopo di loro) dalla prima fila.
Missione compiuta: James, che si fa accompagnare da un chitarrista e da un batterista con un look da collegiali di Oxford, era visibilmente emozionato (complici i suoi timidi sorrisi imbarazzati) ma ha superato alla grande la prova, alternado versioni fedeli al disco ad alcune incursioni (nella seconda parte del set) in territori puramente dubstep. Piccolo appunto: nei momenti più soft e nelle “pause” tipiche di James, il volume dei concerti vicini era, ahimè, troppo invadente.
La voglia di vedere i Pere Ubu era tanta, ma l’amore per i The National era superiore, quindi subito dopo il live di James Blake, mi sono catapultato velocemente dall’altra parte del Primavera (al Llevant) per rivedere (sulla scia del memorabile show di Milano) la band americana. Delusione: una parola che racchiude tutto. Forse il mood non era quello giusto e sicuramente l’acustica non ha aiutato, ma dopo pochi brani e un Matt probabilmente più “bevuto” del solito ho deciso di passare oltre, nuovamente in direzione Pitchfork, nel tentativo di intercettare qualche minuto di quel pazzo di Ariel Pink (carisma unico, c’è poco da fare).
Purtroppo però la massa invalicabile di pubblico ha reso impossibile “vivere” il live dalle prime file… così come la troppa gente presente per i Belle & Sebastian in formazione estesa mi ha costretto ad assistere al live da distanze siderali. Cercando quindi di anticipare i tempi e lasciando da parte i B&S (a malincuore, nonostante non mi stessero convincendo del tutto), sono tornato al Pitchfork per Twin Shadow.
Grande live il suo, personaggio affascinante e carismatico ed esecuzione senza pecche, tanto da non rimpiangere affatto l’aver abbandonato il live dei B&S dopo pochi brani. Rimpianto più grande, invece, quello di non aver visto neanche un minuto dei Low (che suonavano in contemporanea a B&S e Twin Shadow).
E’ buffo come a volte ci si dimentichi di essere prima di tutto ad un festival musicale, vivendo il tutto come fosse un grande party collettivo… così capita che dopo essersi lasciati cullare da tre o quattro brani dei Deerhunter (comunque in forma) al Llevant, ci si risvegli di fronte al palco dei Pulp, con un live quasi al termine, rendendosi conto di aver perso buona parte di una delle performance imperdibili del festival. Roba da mangiarsi le mani…
Per fortuna è arrivato subito il turno dei Battles, che hanno trasformato il Rayban Stage in un enorme dancefloor, con brani estratti dal loro ultimo album (esatto, niente “Atlas”). Parole chiave: Tecnica, precisione assoluta e ritmo da vendere.
3° Giorno – 28 Maggio
A partire dal dolce e intimo live di Perfume Genius all’Auditori, che ci ha dondolato per un’oretta tra il mondo dei sogni e la realtà, il terzo giorno ha messo subito a dura prova la capacità decisionale di ognuno di noi: The Tallest Man On Earth, Yuck, Soft Moon e Cloud Nothing in contemporanea.
La prima scelta è ricaduta su The Tallest Man On Earth (fra sole e cappelli di paglia), la cui versione one-man-band iniziale ha lasciato spazio alla versione trio che da “Dreamer” (con quel ritornello così Brian Adams…) in poi lo ha visto accompagnato dai suoi “brothers”. Il Bob Dylan dei nostri giorni ha sicuramente saputo diffondere buon umore su tutto il pubblico… Non sono stati da meno gli Yuck all’ATP, che fra echi di Pavement e Dinosaur Jr. hanno proposto il loro debut-LP con quell’attitudine un po’ da “svacco” balneare che li contraddistingue. Classico live da muovere la testolina avanti indietro senza farla lavorare troppo.
Sfruttando la distanze favorevoli dall’ ATP, ho pensato di fare un salto al Llevant (ci tornerò poi altre due volte nella stessa serata) dove suonavano le Warpaint. Un paio di brani sono forse troppo pochi, ma non posso dire di esserne stato troppo coinvolto.
Una corsa in zona Pitchfork per un’occhiata veloce e curiosa ai tUnE-yArDs (lei compensa la sua stazza con l’eccentricità e il geniale talento musicale) mi ha permesso di posizionarmi tatticamente per i sucessivi e tanto attesi Fleet Foxes.
Una partenza un po’ in sordina, per poi prenderci subito la mano e proporre un’ora di musica di grande, grandissimo, livello. Unica delusione: l’assenza dalla setlist di “Tiger Mountain Peasant Song”… la aspettavamo un po’ tutti, perchè depennarla?
L’intensissima prima parte di serata ha compreso anche una mezz’oretta in compagnia dei grandissimi Einstürzende Neubauten sugli spalti del Rayban, abbandonati per scappare verso l’inizio del set dei Gang Gang Dance al Pitchfork. Il caso ha voluto che abbiano aperto con la traccia che preferisco: “Adult Goth”. Un vero circo multirazziale e psichedelico, il loro. In contemporanea suonavano anche Kurt Vile & co (giusto il tempo per un paio di brani) e i Mercury Rev, lasciati da parte in prospettiva del live al Poble Espanol previsto per il giorno dopo.
Alle 22:45 è stato il turno di PJ Harvey, molto sobria, vestita di bianco e di piume per un set dal sapore quasi biblico e molto intimo (nonostante la grande folla). La lunga fase di digiuno si stava però facendo insopportabile e la fame mi ha portato a spendere cifre stellari al ristorante della Press Area (dopo giorni all’insegna di kebab e panini una cena “seria” era meritata) nel bel mezzo dei festeggiamenti dei baristi per la vittoria del Barcellona.
Con la calma tipica della fase digestiva mi sono poi spostato per i Mogwai, sempre bravi anche se senza troppe sorprese (o forse era io ad avere un problema con il palco del Llevant?).
Ennesima corsa per intravedere l’inizio degli Odd Future. Nessuno dei miei compagni di viaggio era particolarmente interessato, ma sapevo che ne sarebbe valsa la pena: dopo pochi minuti infatti il buon Tyler, The Creator ha pensato bene di fare un tuffo di cinque metri direttamente sulla folla inneggiante.
Quello degli Animal Collective era uno dei live che più attendevo. I primi venti minuti sono però stati deludenti, quindi, complice l’arrivo di un amico che ha speso 80€ alle 2:45 di notte solo per vedere Odd Future e Dj Shadow, sono tornato al Pitchfork per la fine del set di Tyler & co. E’ risaputo che gli Odd Future siano dei pazzi senza freni: per non smentirsi hanno pensato bene di far salire sul palco un centinaio di persone del pubblico che hanno iniziato a “scatenarsi” insieme alla crew.
Dj Shadow al Llevant ha proposto un set decisamente energico, spingendo sull’acceleratore d&b, facendo ballare a occhi chiusi anche chi ormai non aveva più forze, dopo tre giorni per certi versi distruttivi. A chiudere la giornata, ormai all’alba, un Kode9 in versione super dub/dancehall ha allietato, insieme a qualche birra di troppo, le ultime ore del Primavera nottambulo.
4° Giorno – 29 Maggio
Terminati i tre giorni al Parc del Forum (più di 120.000 persone, cifre alla mano) il festival si è spostato, diramandosi in varie zone della città per alcuni concerti e DJ Set. Per vari motivi, la scelta è ricaduta sull’affascinante location del Poble Espanyol de Montjuic, dove, dopo una serie di concerti “minori” che hanno accompagnato il tardo pomeriggio dell’ormai scarna folla stanca ma felice, sono saliti sul palco i Mercury Rev che hanno proposto il loro capolavoro “Deserter’s Songs”. Che altro potevamo chiedere per chiudere in bellezza questa maratona musicale di 4-giorni?
Difficile stilare una top3 dei concerti che hanno lasciato maggiormente il segno: il livello generale è stato comunque molto alto… nessuno (o quasi) si è risparmiato.
Foto di Eugenia Angelini