Cannella a Blogo: “Siamo stati l’America, undici pezzi di me: ascoltarli è come entrare nel mio mondo, semplice e romano”
Cannella, Siamo stati l’America è l’album d’esordio: l’intervista a Blogo
Venerdì 24 maggio 2019 è la data di uscita di Siamo stati l’America, album di esordio del cantautore Cannella, nome d’arte di Enrico Fiore. Classe 1995, il giovane artista romano si è fatto conoscere al pubblico televisivo partecipando all’ultima edizione di Sanremo Giovani con il brano Nei miei ricordi, singolo che ha anticipato insieme a Campo Felice, Venerdì (Live sul GRA), Di Cuore e Spazzolino, il progetto discografico disponibile sulle principali piattaforme streaming e in digital download.
In occasione della pubblicazione dell’album, prodotto da Matteo Costanzo e dai Prod by Enemies per Honiro Rookies, Cannella ha risposto ad alcune domande e curiosità di Soundsblog sul disco, sulla sua attività di autore, sui legami con la sua città natale e con i social network.
Su Instagram scrivi che gli undici brani dell’album rappresentano undici pezzi di te.
I brani sono molto personali, “pezzi di me” da quel punto di vista. Non ho voluto romanzare la realtà che vivo, il mio quotidiano, le persone che mi circondano, le esperienze che faccio, tutto quello che respiro da quando mi alzo, a quando vado a dormire. Ho scritto l’album in un momento particolare della mia vita, pieno di novità, dopo la fine di una storia durata tanti anni e importanti cambiamenti all’interno della mia famiglia. Dentro l’album si può trovare un po’ tutto quello che riguarda il mio mondo. Il tema principale rimane l’amore, anche perché era l’argomento di cui avevo più da parlare. “Undici pezzi di me” proprio a sottolineare l’autenticità dei brani: ascoltarli equivale a conoscermi, come se entrassi nella mia vita e stessi con me. Spero che ogni persona possa rispecchiarcisi: alla fine, ho una vita normalissima.
Undici brani, undici figli che immagino possano occupare lo stesso spazio nel tuo cuore. Ma se dovessi segnalare tre titoli con cui descrivere e riassumere tutto il progetto discografico, quali sceglieresti?
Se dovessi indicare tre brani dell’album da ascoltare per entrare subito in contatto con la mia visione della musica, direi Venerdì, Nei miei ricordi e Rose Rosse. Venerdì è il brano più carico di significati fra quelli del disco: non l’ho scritto di getto come mi capita abitualmente, ma un po’ alla volta. Ho dovuto metabolizzarlo mano a mano perché racchiude una serie di immagini molto forti. Quando lo ascolto, mi catapulto in un periodo in cui me n’è successa di ogni: dalla separazione dei miei, alla fine di una storia che non si sa che strada avrebbe dovuto prendere, a un incidente che ha avuto mia sorella. Nei miei ricordi è un pezzo completo e maturo: parla di un amore finito, nostalgico ed è l’emblema di quella stessa relazione di cui parlo in Venerdì. Rose Rosse è una storia che racconto dando voce a un personaggio esterno, una ragazza universitaria, attraverso cui però parlo sempre di me. In questo brano affronto il tema della depressione, degli attacchi di panico, dell’incomprensione famigliare e della solitudine. Tutti stati e situazioni in cui mi sono trovato fino a un certo punto della mia vita.
Con Nei miei ricordi hai partecipato all’ultima edizione di Sanremo Giovani. Come hai vissuto la competizione? Il brano che avresti portato all’Ariston, in caso di vittoria, è contenuto nell’album?
Nei miei ricordi è un brano a cui sono molto legato, anche perché mi ha dato l’opportunità di vivere questa bellissima esperienza a Sanremo. Il pezzo che avrei portato all’Ariston è Siamo stati l’America, la title track del disco. L’intento era di dare al pubblico un’altra immagine di me, creando sia contrasto con il brano di Sanremo Giovani – intimo, per eccellenza triste, suonato da tanti strumenti e chiaramente pop – che continuità. Infatti, in Nei miei ricordi parlo in maniera nostalgica di ciò che in Siamo stati l’America canto con una visione e una maturità diversa. Le parole-chiave del brano sono le prime che pronuncio: “Vuoi sapere una cosa che ho scoperto da poco, il mondo va avanti anche senza di te”. Mi sarebbe piaciuto portare in gara un pezzo diverso dalla canzone tipicamente sanremese, un brano super-synth a cassa dritta. Sarebbe stata una scommessa, ma a volte è bello buttarsi: basti pensare al successo di Mahmood con Soldi, brano distante dallo stile tradizionale. Penso che la musica si sia evoluta negli ultimi anni e che sia giusto che, in una manifestazione del genere, si possa sperimentare. Certo, la la tradizione italiana rimane quella, la rispetto e sono io il primo a definirmi “cantautore italiano”, anche se di nuova generazione.
Nell’album citi spesso Roma; addirittura la versione di Venerdì finita nel disco è quella eseguita live su un cavalcavia del Grande Raccordo Anulare. Che rapporto hai con la tua città, che sta vivendo una nuova primavera artistica negli ultimi anni?
Come Enrico, Roma è casa, è mio padre e mia madre. La conosco a menadito, è la mia città. Sono nato qua e morirò qua. Sono sempre stato contrario allo sradicamento: anche quando mancava interesse nei confronti dell’allora nascente terza scuola cantautoriale romana, non mi è passato per la mente di trasferirmi a Milano. Come artista, non ho mai scritto un brano fuori da Roma, non ho mai composto in viaggio. Inoltre Roma è colma di occasioni a livello musicale, soprattutto per chi fa il mio genere. Prima di trovare la mia strada, venivo da un genere che era più definibile come rap: in quel settore Milano rappresenta un importante punto di riferimento, mentre questo nuovo movimento di cantautori pop si muove principalmente nella Capitale. Insomma: se vado in vacanza, il primo pensiero dopo un paio di giorni è di voler tornare a Roma!
Quali sono state le tue influenze musicali? Sono cambiate da quando hai abbandonato la scena rap?
In passato ascoltavo molto rap, sia americano che italiano: mi ci avvicinai da adolescente, quando decisi di iniziare a scrivere musica. Continuo ad ascoltare rap, non l’ho cancellato dal mio background, ma ovviamente ho implementato il mio bagaglio con altri generi. Ascolto molta musica inglese, anche di gruppi famosissimi come i Radiohead e gli Oasis, che hanno tanti brani poco noti che sono preziosi. I primi due album dei Coldplay, che ho sentito due anni fa per la prima volta, mi hanno cambiato la vita. Per quanto riguarda la musica italiana, per la scrittura dell’album ho ascoltato molti artisti del passato: Battisti l’ho macinato, così come Dalla e De André. Ho alternato anche artisti contemporanei ai classici, perché è importante mantenere il rapporto con la realtà, tanto quanto scoprire le proprie origini. Non ho mancato di ascoltare i nuovi lavori di Calcutta, Coez, Gazzelle e Lo Stato Sociale. Mi sono anche aperto parecchio al pop, mentre quando facevo rap avevo poca fame di musica, mi fossilizzavo su ciò che sapevo per certo potesse piacermi. Ad esempio, da tre anni a questa parte, ritengo Cremonini alla pari di un Dio. Poi c’è stato il tempo del primo album di Grignani, del repertorio di Bersani e di Britti. Le playlist di Spotify mi hanno aiutato molto ad esplorare generi musicali e artisti solo apparentemente distanti da me, così come hanno sostenuto la diffusione e il successo nazionale dell’indie-pop: è la tendenza che detta il gusto.
Hai menzionato Spotify, rimaniamo al web. Come gestisci la tua vita virtuale da artista sui social network?
Trovo i social tanto pericolosi, quanto a volte sopravvalutati. Sono utili per veicolare le proprie informazioni, per dare spaccati di quotidianità, per farsi una risata, ma li ho sempre presi abbastanza alla leggera. Mi rendo conto che nell’ambiente dello spettacolo non è facile mantenersi così, perché alla lunga ci si può lasciare condizionare dalla visione che hanno gli altri dei social network. In passato, in effetti, ho rischiato di diventare Instagram-dipendente: non perché caricassi molte foto, ma perché magari vedevo i profili degli altri e scattavano i paragoni col mio. Ho imparato a lavorare su me stesso negli ultimi mesi, a guardare tutto con il giusto distacco. Su Instagram mi chiamo Cannellafuffa per ricordarmi che i social sono fuffa, non sono musica: da artisti bisogna usare i social per tenere un rapporto col proprio pubblico e vedere come e se arriva la tua arte. Non puoi stare a contare i like: è importante ricordarsi ogni giorno che bisogna concentrarsi sul proprio mestiere, perché i social rischiano addirittura di privarti dell’attenzione necessaria per lavorare. Mi limito all’essenziale e la vivo con ironia: i primi post erano pesanti, scrivevo poemi come didascalie, ma ho capito che devo e voglio esprimere quello che penso principalmente con la musica. Il social è più intrattenimento.
E che mi dici dell’ombrello, che proprio su Instagram inserisci sotto forma di emoji in tutti i tuoi post?
L’idea dell’ombrello come icona è nata in maniera del tutto spontanea: nel primo singolo, Campo felice, parlo di un ombrello che ha un valore metaforico. Nel ritornello del brano dico di aver perso quello che lei aveva lasciato a casa da me e che era un simbolo di protezione: non ho più l’ombrello, non ho più te e cammino senza scudo sotto la pioggia. Così, quando ho annunciato il brano, ho iniziato a usare l’emoji nei post su Instagram e anche nel nome che appare sul profilo. Un ombrello tutto rotto è anche nella cover del singolo. Ormai è un’immagine che ho preso a cuore, ma non pretendo si capisca da fuori il significato dell’icona: me lo sono addirittura tatuato sul petto! In soldoni, rappresenta una presa di coscienza e insieme l’inizio di un nuovo percorso artistico.
Ma non può piovere per sempre: sai già quando porterai in giro l’album, i primi appuntamenti con i live?
Presenterò l’album il 1° giugno al Black Market di San Lorenzo, a Roma, e successivamente sono previsti altri appuntamenti live. Pubblicherò prossimamente il calendario con tutti gli incontri. È bello lavorare in studio, in piena fase creativa, però sono un amante dello show: mi piace stare sul palco e avere il contatto con la gente, che ti dà sempre la carica giusta per capire che stai facendo la cosa giusta.