Doro Gjat a Blogo: “Mi vedo come un rapper anomalo”
Hip hop “solare” da una delle regioni più piovose d’Europa: con Vai Fradi il rapper di Tolmezzo ha trovato una nuova voce…
Ascoltare Vai Fradi di Doro Gjat dà la sensazione che l’hip hop italiano abbia “scollinato”, che il rap sia a tutti gli effetti diventato un valido mezzo di espressione artistica, senza per forza doversi confrontare con extrabeat o dissing. Si canta molto veloce, certo, ma ci sono contenuti importanti ed una solarità diffusa in tutti i brani, con una base che non è sempre un beat – anzi, spesso comprende strumenti veri e non campionati. Ok, in un paio di (esilaranti) brani si parla di trombe e impasti, ma è un semplice spaccato di vita che accomuna chi ha “le rocce nelle vene” e chi viene dalla grigia città. Più De Andrè che Luchè, per riassumere lo stile del disco…
Quando prima abbiamo usato il termine “scollinare”, l’abbiamo scelto pensando all’immaginario di Doro, rapper che viene dai monti del Friuli, cosa che canta con orgoglio in molti dei brani di questo suo album solista, che lo vede allontanarsi dallo stile dei Carnicats ma che al contempo tiene vicini i membri della band, visto che si affacciano spesso con i loro strumenti nelle canzoni, per poi comparire tutti insieme in un brano (Prima Di Addormentarmi).
Doro Gjat può dare un punto di vista diverso, sulla scena hip hop italiana: lo abbiamo contattato per fare quattro chiacchiere.
Di solito quando un membro di una crew fa “un disco solista”, in realtà è solo un disco in cui si sente cantare solo lui, ma lo stile rimane quello di sempre. Invece Vai Fradi si discosta da quello che conosco dei Carnicats, ed in effetti si discosta da gran parte della “scena rap italiana”. Quando hai sentito l’esigenza di esprimerti in questo modo così diverso?
Vuoi la verità, solo la verità, tutta la verità? Nel 2013 i Carnicats hanno pubblicato un singolo, “Seconda stella a DX”, che era un tantino ammiccante alle sonorità più in voga ai tempi. È stato il nostro primo (e unico) tentativo di avvicinamento alla scena hip hop più convenzionale, una sorta di compromesso tra la nostra indole artistica e la domanda del mercato. Dopo anni di rap “fatto a modo nostro”, rimanevamo comunque un fenomeno regionale, circoscritto al Friuli (nel quale abbiamo tuttora un grossissimo seguito) e volevamo cercare di farci conoscere nel resto della penisola. Un singoletto pop, con un tema leggero, un bel ritornello (in italiano) e un video molto accattivante sembrava un buon modo per “mettere un piede nella porta” del mercato italiano. Ci abbiamo provato, insomma. Non mi pento di averlo fatto, sia chiaro. Tuttavia lo scarso (per non dire nullo) riscontro oltre i confini regionali mi ha portato a trarre una conclusione: se scendere a compromessi non dava i risultati sperati, tanto valeva rimanere coerenti con se stessi al 100% e continuare a lavorare nella direzione che avevamo intrapreso fino ad allora (chiaramente perfezionandola). E infatti il singolo successivo, “Ferragosto” (il primo singolo tratto dal mio disco), ha ottenuto risultati migliori di “Seconda stella a DX” e, al tempo stesso, ha sperimentato per la prima volta quella che sarebbe diventata la formula alla base di “Vai fradi”: tante parti suonate, niente sample, un’attenzione maniacale alla melodia, testi evocativi senza inutili tecnicismi, influenze da generi diversi. Il tutto amalgamato assieme nello stesso pezzo. Poi, assieme a tutto ciò, c’è stato anche l’allontanamento (spontaneo e dettato da pure esigenze artistiche) dagli stilemi dell’hip hop. Ero stufo dell’autocelebrazione fine a se stessa, dell’emulazione sfrenata del suono d’oltreoceano, dell’attaccamento a una purezza dello stile fine se stessa, del rap che parla di rap ecc. E sai una cosa? Secondo me non sono stato l’unico rapper italiano a passare attraverso una fase simile, visto che ultimamente stanno uscendo dei dischi che fino a tre anni fa sarebbero stati impensabili nella scena italiana.
E il resto dei Carnicats come ha preso la notizia della tua avventura solista?
Guarda, i miei soci erano (e sono tuttora) troppo impegnati per preoccuparsene più di tanto. Sia dj Deo che Dek ill Ceesa (gli altri due membri dei Carnicats, n.d.r.) sono resident in una serata black che gira tutti i più grandi club della penisola. Inizialmente immagino che siano rimasti abbastanza spiazzati dalla mia decisione ma la pressione degli impegni ai quali devono sottostare li ha presto messi di fronte all’evidenza dei fatti e cioè che la realizzazione di un disco richiede tempo ed energie che loro devono incanalare in altro.
La voce è, in effetti, tutta tua: i featuring sono più per i ritornelli che non per strofe che si alternano alle tue, e anzi spesso gli ospiti cantano in inglese, cosa che li distanzia ulteriormente da te. Come mai questa scelta?
Ho escluso a piè pari il contributo di altri rapper dal mio disco perchè non volevo correre il rischio di dover aspettare intere ere geologiche per le strofe altrui. E questa è la prima ragione. La seconda sta nel fatto che mi apprestavo a fare un disco molto personale, con una visione della musica hip hop atipica, poco allineata alla media nazionale. Una delle critiche più costruttive che mi sono state fatte è che il mio disco non parla alla scena hip hop. Non dialogo con i rapper, non parlo di rap, non mi ispiro direttamente a nessuna microtendenza americana, il più delle volte non uso neanche un lessico proprio del genere; il che rende “Vai fradi” un prodotto a sé stante, senza influenze dirette provenienti dall’esterno. Quest’opinione è alimentata dall’attenzione maniacale per la melodia nei ritornelli, che sono uno dei punti di forza del disco. E in questo ho sperimentato parecchio, in primis nella scelta della lingua da utilizzare: ho preferito il friulano e l’inglese perché si prestavano meglio alle linee melodiche sulle quali abbiamo lavorato e perché contribuivano a dare al disco un taglio molto particolare, in controtendenza rispetto alla media nazionale. Un aspetto molto interessante (che, per forza di cose, sfugge ai più) sta nel fatto che le parti in inglese sono cantate da artisti friulani! Sia i Videodreams che Mattia di Delta Club sono cresciuti a Tolmezzo con me, spalla a spalla. Qualche anno fa hanno fatto la grande scelta di andarsene all’estero per poter lavorare con la musica (cosa quantomeno difficile nel nostro paese) e sono tornati in patria qualche giorno per contribuire al mio disco usando la lingua che parlano nel posto in cui vivono. Infatti, se ci fai caso, puoi percepire il tipico accento nella pronuncia del loro inglese! (ride, n.d.r.)
In molti pezzi canti dell’orgoglio delle proprie radici, anche se sono lontane dai “centri nevralgici” della scena rap italiana. Quindi mi stupisce poi sentire che in “Ferragosto” canti di chi vive il paese e la provincia come una gabbia che va troppo stretta – è una sensazione che hai ad un certo punto vissuto sulla tua pelle, o sono esperienze che hai visto in altri tuoi coetanei?
Entrambe le cose. Mi sono spostato dal Friuli per studiare, al termine delle scuole superiori: in quel periodo ho maturato quel senso di perenne nostalgia che mi colpisce quando mi allontano da casa e che è il motore ausiliario della mia creatività. Il rapporto che lega noi friulani alla nostra terra si regge (come spesso accade) su un equilibrio instabile tra amore e odio ed è normale che nel disco emerga questo conflitto. In particolare in Friuli, in questi anni, stiamo vivendo una forte ondata migratoria che porta molti giovani a trasferirsi all’estero, in cerca di un lavoro dignitoso o di una svolta in ambito artistico. Questo ha portato lontano da me più di qualche amico, che ora vive altrove. Certo, le distanze si accorciano nell’epoca dei social network. ma si fanno sentire ugualmente e nei testi del disco questa cosa emerge più spesso di quanto avrei (razionalmente) preventivato.
Ho trovato molto solari non solo i testi, ma anche le sonorità del disco – è perché vieni dalle montagne e non dal ghetto?
In realtà il Friuli è la regione più piovosa d’Europa, quindi il merito di questa solarità sicuramente non va alla mia terra! O forse, ora che mi ci fai pensare, è proprio una reazione a tutto questo grigiore che mi spinge a cercare il sole nella mia musica. D’altra parte da ragazzino preferivo il rap west coast a quello newyorkese, proprio per questa ragione: cercavo di evadere dal clima alpino della mia terra sognando di essere su Sunset Boulevard in una Impala del ’66 ascoltando “All Eyez On Me” di 2Pac. E invece, ironia della sorte, eccomi qui, quindici anni dopo, a girare i videoclip su una Innocenti Bianchina del ’63 girando per i paesini della Carnia e ascoltando “Vai fradi”! (ride, n.d.r.)
Qual è l’equivalente del “ghetto”, quando si vive in un paese di montagna?
Il campo di patate dietro casa, suppongo. (ride, n.d.r.) In realtà, anche solo pensarci, rappresenta un parallelismo fin troppo forzato: il ghetto, così come è radicato nell’immaginario collettivo, non esiste nel posto da cui vengo. Certamente ci sono delle situazioni di disagio, il reddito pro capite è decisamente basso (dimentica i ricchi paesini fioriti del trentino, qui siamo più poveri) e le case popolari esistono a Tolmezzo come a Milano. Ma ripeto: qui non esiste quello a cui si pensa quando si parla di “ghetto”.
In alcuni tratti mi sembra di stare ascoltando un disco con forti influenze reggae più che hip hop – più Sud Sound System che Clementino… mi sono fatto una visione sballata della tua musica?
Se parliamo della title track (e secondo singolo) allora ci hai preso: la chitarra in levare e i sample vocali presi da dischi dancehall che sono ormai dei classici richiamano la cultura reggae a voce alta. D’altra parte uno dei festival reggae più grandi al mondo (il Rototom Sunsplash) è nato qui in Friuli e parecchie (gloriose) edizioni si sono tenute in un paese a 20km dal mio, prima che si trasferisse in Spagna qualche anno fa. Quindi la cultura reggae ha avuto una forte influenza sulla mia crescita e sui vecchi dischi dei Carnicats si sente parecchio. Tuttavia, se parliamo del mio disco, le influenze reggae si esauriscono alla title track.
Guardando la tracklist del disco, si nota che tre brani (Fame Lirica, Nightcalls e Ferragosto) fanno parte di una sorta di “trilogia” chiamata “Notturno”. Cosa vuol dire? E perchè non aggiungere anche “Prima Di Addormentarmi” a questo mood serale?
Buona parte del disco è stata scritta durante la notte. Ai tempi facevo il proiezionista al cinema quindi, una volta finito il turno serale, tornavo a casa e mi chiudevo in studio a scrivere e registrare fino alle prime luci dell’alba. Nel corso di queste sessioni sono usciti diversi brani a tema ‘notturno’. Ne ho poi scelti tre perché raccontano tre nottate di tipo diverso: c’è quella dell’artista che, a fine turno, si chiude in studio per soddisfare la sua “Fame lirica” che gli chiede a gran voce di scrivere delle proprie angosce e delle proprie insicurezze; c’è la notte ‘sballata’ di “Nightcalls” in cui si parla di quelle volte in cui si esce (magari controvoglia) e si passa la notte rimbalzando da un locale all’altro fino a che la lucidità viene meno; e poi c’è “Ferragosto”, in cui la notte rappresenta un momento di introspezione in cui guardarsi dentro per cercare le risposte alle domande che da sempre ci perseguitano. “Prima di addormentarmi” invece rappresenta la conclusione di questa fase notturna: la nottata è finita (una qualsiasi delle tre citate sopra, a scelta) e ce ne andiamo a letto pensando alle cose veramente importanti, a quelle che vorremmo portarci dietro se dovessimo dormire per sempre. Una sorta di introduzione all’ultimo pezzo, “Anche se”, nel quale il tema della morte viene analizzato più a fondo.
Una nota sui Carnicats: cercandoli su Google ho scoperto dell’esistenza di una fantastica Wikipedia in Friulano, che poi è l’unica Wikipedia che parla del gruppo, al di là della pagina ufficiale. Non è troppo limitante far narrare la vostra storia solo nel vostro dialetto?
Abbiamo cercato di inserire la voce Carnicats su Wikipedia più e più volte, in diverse fasi della nostra (ormai decennale) carriera, rispettando criteri e regole della community. I redattori ci hanno sempre bloccato, in modo anche poco elegante, dicendo che abbiamo rilevanza solo territoriale e che le fonti non erano autorevoli. Sai cosa farò? Appena voi di Soundsblog.it pubblicate la nostra chiacchierata, ricompilo il modulo e lo mando ai redattori citando anche voi come fonte. Chissà che la voce autorevole di soundsblog.it riesca a scuotere gli alti papaveri di Wikipedia. Ah!
Sono curioso quindi di saperne di più sulla scena locale, carnica e/o friulana, di cui si sente parlare poco.
Qui è bene fare una distinzione tra musica friulana e musica ‘in friulano’. Quest’ultima da qualche decennio sta vivendo un momento particolarmente prospero. Il movimento si chiama “Gnove Musiche Furlane” (Nuova Musica Friulana) e rappresenta una nuova fase di ‘emancipazione’ della lingua friulana al di fuori dei contesti nei quali la massa degli ascoltatori è abituata a sentirla. In due parole: quando senti il friulano pensi ai canti degli alpini e alle canzoni da bar; la Nuova Musica Friulana, in controtendenza, ha cominciato un processo di emancipazione della nostra lingua applicandola a generi musicali importati (come, nel nostro caso, il rap) e spalancando le porte a una nuova fase in cui il friulano si sente più vivo che mai. Siamo enormemente orgogliosi di farne parte. Per quanto riguarda invece la musica friulana, io sono convinto che dalla mia regione siano usciti dei gran dischi, anche se spesso restano nel sottobosco e non emergono. Per quanto riguarda l’hip hop, per esempio, nel 2007 è uscito “Robots”, il disco d’esordio del rapper goriziano Giuann Shadai, che a mio avviso meriterebbe di stare tra i classici del genere a livello nazionale. Oppure il progetto Hungerplan, composto da Sandro Su e Dj Color che, nel 2015, ha pubblicato un disco di altissimo livello che è passato inosservato ai più. È un peccato e purtroppo, in casi come questi, la distanza fisica dai centri nevralgici della musica italiana si fa sentire.
Come ti vedi nella scena nazionale?
Come un’anomalia, in qualche modo. Sono un rapper che viene da un paesino, faccio musica con influenze di così tanti generi musicali da diventare quasi inclassificabile, parlo una lingua strana che parlano in pochi e mastico con la bocca aperta (quindi non invitatemi a pranzo… ride, n.d.r.). Scherzi a parte, mi vedo come un rapper anomalo. La definizione mi piace. E trova conferma anche nel mio live, perché faccio hip hop senza dj sul palco, con un batterista e due polistrumentisti (chitarre/synth + basso/percussioni). E credetemi: il risultato vale una sbirciatina, soprattutto se rapportato ai live dei miei colleghi rapper. Fine del momento egotrip. Almeno un accenno a fine intervista dovete concedermelo, dai! Sarò anomalo ma sono pur sempre un rapper! (ride, n.d.r.)