Home Interviste Ensi a Soundsblog: “Con Rock Steady voglio dimostrarmi un buon lyricist, oltre che freestyler”

Ensi a Soundsblog: “Con Rock Steady voglio dimostrarmi un buon lyricist, oltre che freestyler”

Niente più battle finchè non troverà qualcuno in grado di sconfiggerlo: nel frattempo, Ensi si impegna nell’interpretazione dei brani, senza doppie voci o spalle. Rock Steady è al 100% un disco “suo”: eccone la sua presentazione.

pubblicato 2 Settembre 2014 aggiornato 29 Agosto 2020 14:57

Esce oggi Rock Steady, il nuovo disco di Ensi, uno dei lavori hip hop più attesi di questo ultimo quarto del 2014.
Oltre a tracklist ed un singolo, il rapper è riuscito a tenere nascosto quasi tutto dell’album, mantenendo un alone di grande attesa spinto anche dalla rivelazione di “special guest” decisamente diversi, presi al di fuori della scena rap. Ecco, oltre a sapere che ssolo su Stratocaster si sarebbero trovatialtri rapper, del gran calibro di Salmo e Noyz Narcos, e che al disco hanno partecipato anche Patrick Benifei (, a Julia Lenti (ex concorrente di Star Academy), Andrea D’Alessio (ex concorrente di X Factor) e Y’akoto (cantante soul tedesca di origini ghanesi, che dà una gran prova vocale su Grazie), si sapeva poco del disco.

Ma ora Soundsblog è qui per gettare un po’ di luce su Rock Steady, proprio nel momento in cui potrete premere play sul vostro lettore e godervi tutte le tracce, dall’anthem iniziale Rispetto di tutti paura di nessuno (“Mi tiro dietro questa scena / Oh-ISSA! / E sto ancora cercando / un pazzo che mi dissa”) al pezzo struggle finale Non E’ Un Addio (“Io so che il sole si alza tutte le mattine / ma questa notte sembra non avercela una fine / fuori fa freddo, si gela già / la Primavera è lontana come la serenità”), passando dalla canzone d’amore “alternativa” di Rocky e Adriana, per poi fomentarsi ancora con Juggernaut (“Sono caduto in un pentolone di flow / chiamatemi flobelix”) e Stratocaster (“Sul palco più selvaggi delle rockstar”).
Inutile recensire il disco, nonostante abbiamo avuto il privilegio di ascoltarlo in anteprima nell’ultimo mese e di godercelo in pieno, arrivando a suggerirlo a tutti gli amanti della scena.
La musica di Rock Steady parla da sola, e quindi noi siamo andati a parlare direttamente con Ensi, ottenendo risposte articolate e profonde, che spingono alla riflessione…

Ciao Ensi – il tuo disco esce oggi, ma contrariamente a molte altre produzioni di tuoi colleghi, si è mantenuto il segreto quasi totale sulle tracce, con sostanzialmente solo una canzone presentata in anteprima, ovvero il primo singolo Change. Avendo ascoltato tutto il disco, verrebbe da chiedersi come mai hai scelto un brano così “diverso”, anche come tematiche, rispetto a tracce che potrebbero mettere “tutti in riga” come Juggernaut o Rispetto Di Tutti Paura Di Nessuno.
“E’ perchè non mi piace fare quello che la gente si aspetta da me. Non che questo voglia dire che Change è un pezzo sperimentale, non si discosta dalle tematiche e dallo stile hip hop, non è un pezzo dance come qualcuno ancora crede.
Io amo l’hip hop perchè è capace di darti una sonorità e un tipo di atteggiamento per qualsiasi emozione tu cerchi di trasmettere. Penso sia importante per noi artisti cercare di andare oltre i confini entro i quali ci troviamo a nostro agio, provare qualcosa di diverso rispetto a quello che ci ha portato al successo.
Ho dimostrato di poter rappare su qualsiasi tipo di sonorità e affrontare qualsiasi tipo di argomento, con Change volevo creare quello che è successo: il commento più diffuso è stato “Ensi, mi hai spiazzato”, ed è quello che cercavo. Il testo rimane vicino alla mia sensibilità, e ho potuto collaborare con un grande artista come Patrick Benifei, cantante e tastierista dei Casino Royale e Bluebeaters.
Il ritornello, per quanto possa essere semplice, non è banale, e dimostro, come dice il testo, che non mi accontento e che non sono monodimensionale. Non sono solo capace di fare freestyle, non so solo scrivere pezzi da battaglia, non so solo scrivere pezzi d’amore… so scrivere anche questo.”

Parlando di cose che ti differenziano dagli altri, ho notato che spesso tratti il tema della nostalgia che sfocia nel rimpianto – su Rock Steady la troviamo nelle rime di Non è un addio, ma ad esempio i due pezzi che hai fatto sui dischi di Rocco Hunt sono delle bombe emotive… Vorrei sapere in quali momenti ti viene l’esigenza di scrivere testi come quelli.

“Penso che le emozioni che mi portano a scrivere un testo siano sempre ai margini, senza troppe vie di mezzo: o ci sono la sofferenza più totale, o la gioia più totale. E’ così che esce la mia personalità… non mi piace vivere nel grigio, o sono bianco o sono nero, con pochi spazi per le sfumature.
Se scrivo un pezzo “struggle” non è perchè voglio far piangere la gente, ma perchè mi serve come terapia.”

Si dice che chiunque scriva lo fa per un pubblico immaginario che ha in mente e che immagina leggerà il testo. Qual è, per te, il pubblico di Rock Steady?

“L’hip hop per me parla senza barriere: senza razza, senza età, senza regioni, senza ceto sociale. Però se mi chiedi chi può apprezzare in pieno Rock Steady, mi immagino un pubblico un po’ maturo, che conosce l’hip hop, anche se penso i pezzi possano accontentare tutti, dal ragazzino al trentenne. Spero solo che chi conosce la storia dell’hip hop possa cogliere alcune sfumature più profonde.”

Ti preoccupi mai che alcune delle tue citazioni non vengano colte? Ad esempio, quando in Juggernaut citi Cain Marko e Jack Burton, bisogna essere un bel nerd ed avere ormai una certa età, per sapere a chi ti riferisci…

“No aspetta, Jack Burton è stato uno dei personaggi cardine della mia infanzia. “Grosso Guaio A Chinatown” è un film fondamentale per la mia vita, non passa anno senza che io me lo riguardi, quindi spero che ognuno colga la citazione del suo nome.
Cain Marko, è appunto il “Juggernaut” dei fumetti della Marvel. Non sono un fanatico dei fumetti, ma quando cercavo qualcosa che esprimesse il concetto di “forza della natura”, ho trovato lui come iconografia, un tizio inarrestabile.
Non ho paura che le citazioni non vengano colte, perchè ormai abbiamo un mondo a portata di click, quindi se un nome ti suscita curiosità, poi scoprire chi sia in pochi secondi. E’ successo anche a me con Noyz Narcos, che in Stratocaster nel suo pezzo cita Jodorowski, e io gli ho chiesto chi fosse… lui mi ha spiegato che è un regista, ci siamo visti El Topo, ho allargato la mia conoscenza. E’ anche questa la cosa bella del rap, ognuno ci mette del suo e chi ascolta può trovare livelli sempre più profondi di comprensione.”

Dici che abbiamo un mondo a portata di click. In questi tempi di mega-instantaneità, con Facebook e Twitter, è stato difficile per te mantenere il segreto sui guest dell’album, rivelando poi dei nomi così inaspettati?

“Non amo il gossip, quindi non mi è mai venuta la tentazione di metter su delle foto che suggerivano chi stava registrando con me.
Avrei potuto collaborare con duecento rapper, ci sono tantissime persone che mi devono un’ospitata, visto che se ascolti qualsiasi disco forte del 2013, c’è dentro una strofa di Ensi!
Per Rock Steady volevo mettere in mostra innanzi tutto me stesso, dimostrando di essere un buon lyricist oltre che un buon freestyler, e quindi non volevo distogliere l’attenzione prendendo un mega-ospite per ogni canzone. Se ascolti il disco, non ci sono doppie voci, ho fatto tutto io. Quando in Juggernaut dico “in studio per una sedici fai venti tracce”, critico chi registra a pezzetti i propri brani. Un musicista non registra a tocchetti gli assoli di chitarra: è lì che si vede la bravura, quindi io non ho preso scorciatoie, c’è solo Ensi qui, e mi sono impegnato molto nell’interpretazione.”

Dopo aver vinto Spit nel 2012, sei stato enormemente esposto nei media. Ti ho visto a far da giudice ancora a Spit, ti ho visto al Leonkavallo a fare da giudice a Run 2 Glory, ti ho visto ospite in trasmissioni televisive importanti. Non ti ho più visto, però, impegnato in battle.
Stai soffrendo della solitudine del re, che dopo aver vinto tutto non trova più nessuno da sfidare?

“Non voglio prendermi meriti del genere, anzi.
Calcola che quando ho partecipato a Spit il primo anno, io in realtà non volevo nemmeno andare: non perchè mi sentissi superiore, ma perchè io il mio percorso l’avevo già fatto, sentivo di aver già preso l’eredità dei grandi della scena, perchè avevo battuto Tormento battendola al 2 The Beat in maniera chiara – per chi non lo ricordasse, nella finale avevo vinto a testa o croce la possibilità di andare per primo o secondo, e avevo scelto la strada difficile di partire per primo perchè volevo che in caso di vittoria non si dicesse “eh, ma è facile rispondere alla rime anzichè attaccare”. Volevo battere un mio maestro in maniera pulita, e ce l’ho fatta.
Egualmente, io non parteciperò più ad una gara di freestyle, almeno fino a quando non sarà il momento di passare il testimone. Io speravo succedesse a Spit, speravo che un diciottenne o un diciannovenne mi mandasse a casa, come successe per me a 2 The Beat, in cui mandai a casa leggende ben più vecchie di me, di quasi due generazioni più in là.
Poi chiaramente, una volta nel ring sono stato agguerritissimo, non ero lì per far vincere gli altri, ma ero lì per metterli alla prova e vedere se riuscivano a battermi. Non è successo, perchè penso che sia Shade che l’ottimo Nitro, che è arrivato secondo due volte, non abbiano ancora trovato il fuoco che brucia in me, Kiave, Clementino e gli altri della generazione precedente alla loro. Sono ottimi freestyler, ma manca ancora qualcosa: noi abbiamo voluto essere migliori di chi c’era prima di noi, loro al momento stanno facendo molto bene quello che noi abbiamo già fatto. L’allievo deve imparare il maestro, sempre.
Quando arriverà il momento, magari fra dieci anni, magari fra cinque, qualcuno troverà quella chiave per battere il maestro. Ma al momento se dici “freestyler” in Italia, si pensa ancora ad Ensi, perchè nessuno mi ha più mandato a casa sull’ 1-2, battendomi completamente.”

Parlando delle tue apparizioni in tv e radio, ti ho visto a Che Tempo Che Fa, e per puro caso ti ho anche ascoltato in un fantastico programma scientifico su Radio 24. Sono state anche altre le apparizioni in contesti totalmente slegati dalla musica… non ti sei mai sentito una macchinetta spara-freestyle, esibita più come fenomeno da baraccone che non come rappresentante di una scena musicale da far conoscere?

“Quando andai da Fazio, ci andai con un po’ di peso, perchè all’inizio sembrava una cosa ben organizzata, in cui potevo parlare, argomentare, e poi fare un po’ di freestyle, mentre invece avete visto tutti che mi hanno trasformato in un jukebox. Poco prima di andare in onda, nei camerini, avevo detto a Fazio che non volevo più farla quella cosa, ben consapevole che avrei rinunciato alla visibilitè di tipo tre milioni di persone per una questione di rispetto.
Molta gente non comprende che quando improvviso, è come lo fa un jazzista: è importante l’estemporaneità, ma è importante anche il contesto, la musica… poi ok, chiudere una rima al volo fa parte del gioco, ma non è quello che mi piace fare.
Quindi si, per qualche momento ho avuto la paura di trasformarmi in un jukebox, ma ora ho dato un taglio a queste cose, al punto che non faccio più nemmeno il “saluto simpatico in freestyle con la rima del sito”, alla fine delle interviste – te lo dico così schiettamente perchè dalle domande che mi fai ho capito che tu non me l’avresti chiesta, alla fine di questa conversazione. Non voglio dare quell’immagine del freestyler che ti fa dire “oh senti questo qui cosa sa fare con le parole” – non è solo quello, fare freestyle. Non è che il mio rap sia prezioso, ma voglio fare freestyle nel luogo e il momento giusto – lo dimostrano video su YouTube registrati su un cellulare di me che scambio rime fuori da un locale, o i bei ricordi di aver coinvolto nel backstage gente come Gue Pequeno, che di solito non si lascia andare al freestyle, oppure Emis Killa, che invece mi offre sempre un bicchiere e dopo un paio parte subito il cerchio del freestyle. Mi diverte farlo, ma voglio farlo nel momento giusto, non quando mi inseriscono una monetina…”

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