I Cani + Calcutta, il live report del concerto all’Atlantico di Roma, 23 febbraio 2016
La recensione del concerto all’Atlantico di Roma: con Calcutta in apertura, I Cani regalano uno show maturo e sorprendente.
Sold out. Comincia così, con uno stuolo di bagarini sfacciatamente davanti alle casse, il live che presenta in combo una delle doppiette più potenti della musica italiana del momento: Calcutta + I Cani in concerto all’Atlantico di Roma il 23 febbraio 2016.
C’è il pubblico delle grandissime occasioni e con l’ugola fremente. Calcutta ha solo Mainstream come album all’attivo, album che noi di Soundsblog vi avevamo saggiamente indicato tra i dischi del 2015 da ascoltare, ma il palco lo tiene col piglio di chi ha i piedi saldi e ossa notevoli.
Dal nostro personale apprezzamento sono passati solo un paio di mesi, ma lo stropicciato cantautore di Latina ha fatto letteralmente il botto: il coro sulle sue canzoni è unanime, squarcia l’aria, commuove quasi. È liberatorio. Calcutta canta la piccole sfighe di una generazione e lo sa fare perché le ha vissute per primo e perché ha saputo mettere in fila le parole per descriverlo. Ha un’innata ironia, parla tanto col pubblico, dedica brani. Su Cosa mi manchi a fare l’applauso di accoglienza riesce persino a sovrastargli la voce. Vogliamo usare un’espressione abusata e definirlo “generazionale”? No, anche no. Forse c’è dell’altro e sta cercando di dimostrarcelo.
I Cani si dimostra il fratello maggiore del suo opening act. Maggiore come apertura musicale, perché ormai al terzo disco, Aurora, Niccolò Contessa ha dimostrato di voler alzare il livello aprendo a sperimentazioni inedite e giochi elettronici. Nonostante il problema tecnico in apertura, che interrompe l’atmosfera in crescendo creativo, I Cani entrano sul palco con una sicurezza incerta che riassume il vecchio e il nuovo. “Scusatemi” mormora dopo l’intro ripetuta due volte.
I sintetizzatori sanno accompagnare le storie raccontate da I Cani senza invaderne lo spazio vitale: “Baby soldato” apre il concerto tra gli applausi e non ci sono più le canzoni appositamente scritte per descrivere un microuniverso underground. C’è di meglio: le canzoni si sono svestite dell’ovvio da cameretta naif per continuare a raccontare storie che sanno anche far ballare, come in Protobodhisattva, conquistando punti anche a livello narrativo.
Fa strano vedere I Cani acclamato un elettrostar. Fa strano perché abbatte lo stereotipo, il pregiudizio dell’indie boy da club piccolo, per aprire ad una visione che oserei definire europea, se proprio divessi riempirmi l bocca di paroloni. L’esempio è con FBYC (sfortuna) o con il singolone Non c’è niente di twee, o la stessa Vera Nabokov che, ve lo assicuro, non sfigurerebbero in un festivalone sudato.
La crescita è forte, lo stacco notevole. Piaccia o no, I Cani lo sanno: gli arrangiamenti riescono ad amalgamare il vecchio e il nuovo, portando in primo piano quasi il fastidio delle tastiere a bomba che saturano l’impianto. Le coppie diventa un pezzone da festone in spiaggia, e ironia della sorte molti degli spettatori sono esattamente come descritto nel brano. C’è il pogo collettivo su Asperger. Il. Pogo. Collettivo. Anche nelle ultime file. E non si ferma su Hipsteria, anzi, coinvolge anche chi voleva starsene contro la transenna del mixer ad ascoltare: I Cani ci descrivono nel bene e nel male, tra difetti e pregi spennellano la società moderna di sarcasmo e cattiverie.
L’intimismo arriva dopo un po’ con Aurora, uno dei pezzi più belli del nuovo disco: le sfumature vintage del suono esplodono fortissime in un viaggio onirico col sorriso liberatorio. I brani del nuovo lavoro, come Una cosa stupida, funzionano meglio dal vivo che in studio, si arricchiscono di aperture ampie che la compressione digitale in studio non faceva emergere. Sparire e Corso Trieste sono affidate a voce e piano dal sapore psichedelico, solo alla voce, mentre il coro si alza sempre più in alto, Questo nostro grande amore diventa un unico canto collettivo.
I Cani sono maturati. Hanno alzato il livello della dimensione live un po’ per tutti, spianando la strada. Onore e gloria a Niccolò Contessa per aver distrutto ogni prevenzione nei suoi confronti con il potere analogico della musica dal vivo, in grado di inglobare ed elevarsi assieme ad una scrittura sempre più personale e riconoscibile.