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Il reggae e l’omofobia: ci pensa la “Stop Murder Music”

Parlare di reggae vuol dire parlare di musica politicamente consapevole. Le sfumature ideologiche che passano attraverso questo genere musicale hanno ancora oggi per il grande pubblico esempi celebri (imbattuti in fama) come Bob Marley e Peter Tosh, pionieri del genere musicale e portatori di ideali d’amore e di pace. Il reggae però ha avuto (ed

di aleali
pubblicato 9 Agosto 2007 aggiornato 1 Settembre 2020 01:25


Parlare di reggae vuol dire parlare di musica politicamente consapevole. Le sfumature ideologiche che passano attraverso questo genere musicale hanno ancora oggi per il grande pubblico esempi celebri (imbattuti in fama) come Bob Marley e Peter Tosh, pionieri del genere musicale e portatori di ideali d’amore e di pace. Il reggae però ha avuto (ed ha ancora oggi anche se in minor parte) un altro connotato tematico dilagante: parlare male degli omosessuali, talmente male da evocarne in varia maniera anche la morte.

Peter Tatchell, attivista che da anni lavora per i diritti civili specie omosessuali, ha lanciato con alcuni gruppi giamaicani la “Stop Murder Music”, una campagna che vuole arginare questo tipo di fenomeni convincendo molti dei più importanti cantanti reggae ad evitare nei concerti e nelle nuove produzioni brani omofobi. Un esempio riuscito sembra essere quello di Capleton, che in passato in un singolo del 2000 inneggiava alla possibilità che i gay venissero bruciati e uccisi.

La trasformazione dell’omofobia in rispetto in alcuni di questi artisti sembra essere radicale: basti pensare a Buju Banton, per molti l’erede di Bob Marley, che dopo tre anni dall’inizio della campagna “Stop murder music” sembra aver allargato finalmente le sue vedute. Un respiro di sollievo per gli omosessuali giamaicani che ancora vivono leggi molto restrittive ( addirittura pre coloniali) su quella che nei loro territori viene definita ancora “sodomia”, subendo tra l’altro per questo motivo violenze incentivate (secondo alcuni) da questa indelicata “sfumatura” musicale. Grazie a questa campagna si stimano ad oggi alcune centinaia di concerti chiusi e sponsor persi, per un danno agli artisti di 5 milioni di dollari. Tatchell dichiara:

“E’ un passo positivo il fatto che quattro dei più importanti artisti reggae condannino la violenza anti-gay. Non siamo contro il reggae o la dancehall – sono generi fantastici – ma il nostro obiettivo è che il minor numero di artisti usi la musica per incitare la violenza.”


Far sparire dai propri concerti questo tipo di canzoni non significa però che gli artisti cambino davvero opinione: sembra infatti che molti di loro abbiano voluto solo evitare di bruciarsi la carriera per alcune canzoni condannate dal movimento omosessuale e dalla stampa. Altri credono che l’omofobia musicale reggae nasca dalla religione locale di matrice cristiana fondata sulla Bibbia, e che sia quella la ragione originaria dei loro pregiudizi. Dorian Lynskey, autore del blog musicale del “Guardian”, dice che “eliminare l’omofobia dalle canzoni reggae è come eliminare gli argomenti violenti dai brani dei rapper americani. Loro non posso aiutare nessuno, non hanno creato il problema, e nemmeno hanno il potere di risolverlo.” Secondo gli artisti reggae “prima maniera” invece, la vera omofobia è stata incentivata dalla musica dancehall, che con il suo approccio più aggressivo non risulta conforme agli ideali di tolleranza reggae originari. La battaglia, favorevoli o contrari, continua. I prossimi obiettivi? Secondo Tatchell saranno Elephant man, TOK, Vybz Kartel e Bounty Killer.

Fonte: Time

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