Fare l’amore con la chitarra: Polyphia a Milano, foto-report dal concerto all’Alcatraz, 23 Maggio 2022
Prog-metal, funk, pubblico caldissimo, piacere nel suonare: i Polyphia hanno portato all’Alcatraz di Milano una declinazione molto moderna della musica strumentale pesante.
Due parole di introduzione a questo live report: chi scrive non conosceva i Polyphia fino a 2 giorni fa, ha deciso di andare al concerto seguendo il consiglio di un “pezzo grosso di Metalitalia.com” che suggeriva agli addetti ai lavori di andare a dare un’occhiata a questo gruppo giovane e che sta spopolando ovunque con la sua musica principalmente strumentale. Quindi, scusatemi se ci sono imperfezioni tecniche su quel che dico, le mie sono solo impressioni -tutte positive- sul concerto.
Dall’alto della mia ignoranza, mi aspettavo di trovare all’Alcatraz un Palco B attrezzato per il concerto, ma appena parcheggiata con difficoltà la macchina, mi sono trovto circondato di gente sul marciapiede fuori dal locale: gente che finiva di bere birre prese alla LIDL lì accanto, ragazzi che aspettavano enormi compagnie di amici, molti stranieri con il biglietto in mano. In cassa, il verdetto giunto in mattinata: il concerto è soldout, e il palco preparato è quello A, quello più grande, e la sala si mostrerà strapiena, a tutti gli effetti. Bene.
Il pubblico è già caldissimo per l’opener: il nome di Johan Lenox è urlato a gran voce non appena si spengono le luci, sul palco ci sono due violinistə mascheratə (uso la schwa perché una credo sia donna, ma si vedono solo gli occhi) e un dj con un basso a tracolla. Non so se uno di questi sia Johan, ma la cosa viene chiarita dopo qualche secondo: arriva un tizio con in mano una bottiglia di Cynar e inizia a cantare con voce suadente un pezzo che mi ricorda i Muse. Il tempo di qualche sorso di liquore a base di carciofo, e la seconda canzone è molto più ritmata, sembra un rap dai toni tranquilli, e il testo sembra uno di quelli trap più abusati: “bevo troppo, fumo troppo, sc*p* troppo”. Il tutto su una base di violini.
Johan è carico a mille (sarà anche l’energia liquida del Cynar, co-protagonista della performance), si presenta con umiltà, e ci rivela una serie cose incredibili: da piccolo studiava musica classica, poi ha sentito per la prima volta Kanye West e decise che quella era la musica che voleva fare. Inoltre, i violinisti sul palco sono italiani, in ogni tappa del tour recluta due violinisti ai quali mostra gli spartiti un paio d’ore prima del concerto e poi dice loro di improvvisare quel che vogliono.
Stile di vita e musicale incredibile, che attira tantissimo l’attenzione su un musicista che ha mostrato sincero entusiasmo per la sua prima volta in Italia: chi lo conosceva già, aveva ragione a cantare il suo nome prima ancora che salisse sul palco.
Dopo un cambio-palco decisamente lungo, le luci si spengono e dal pubblico parte uno dei cori di incitamento più alti e compatti che abbia sentito negli ultimi mesi: POLYPHIA! POLYPHIA! POLIPHYA!
Ed ecco che il gruppo texano sale sul palco. Non ci sono introduzioni, non ci sono fronzoli: i musicisti attaccano a suonare, e vanno avanti per tutto il concerto. Tim Henson e Scott LePage hanno due stili completamente diversi di suonare la chitarra: il capellone Scott tiene il ritmo con tutto il corpo, muove le spalle mentre fa volare le mani, mentre il tatuatissimo Tim segue il ritmo con la testa, la muova dolcemente, suona a occhi chiusi, ogni tanto si morde le labbra perso nella musica. Possiamo dirlo: Tim Henson fa l’amore con la chitarra. E insieme a lui, raggiungono il climax anche gli spettatori, impegnatissimi ad applaudire, filmare, seguire la musica, e anche fare crowdsurfing. E’ interessante il fatto che prima del quarto pezzo, Goose, un crowdsurfer venga individuato dalla band, che lo saluta e dichiara che servono almeno 10 crowdsurfer per far partire la canzone, altrimenti il ritmo non sarà quello giusto. E allora, ad un concerto che superficialmente si può definire “prog metal / guitar hero”, si vedono persone che volano sulle teste di altre persone, e più avanti ci sarà tempo per un po’ di moshing ed un wall of death.
Quando ci sono due chitarristi che attirano tutta l’attenzione, al bassista non rimane che prendersi cura del microfono, quando serve: Clay Gober (tra l’altro indossando una maglia di Rammstein/Ramones che possiedo anche io) si occupa degli occasionali saluti al pubblico, di incitare nei momenti giusti.
In definitiva, non sapevo cosa aspettarmi dal concerto, e sono rimasto stupito e soddisfatto: i Polyphia sono a metà fra un gruppo progressive con estetica emocore, e degli influencer. In pratica, sono un gruppo metal che ha abbracciato la contemporaneità. Hanno avuto successo con video-tutorial su YouTube e anche con un po’ di sano clickbait, ma al contempo sono evidentemente dotatissimi.
Quando Tim apre gli occhi alla fine di un assolo, sorride sempre: si vede che si sta godendo quel che la musica gli permette di fare, il che vale anche più di un orgasmo chitarristico, sia per lui che per il pubblico.